martedì 21 gennaio 2014

Un covo di uomini nudi

La prima volta che misi i guantoni non ci credeva nessuno.
Dieci anni di danza classica - pulizia, equilibrio, perfezione - e perché mai mi era venuta voglia di farmi spaccare la faccia.
Non sembrava un gioco tanto diverso; sempre un'avventura solitaria, una coreografia leggera sulle punte, fiato e muscoli fasciati, studio dei movimenti, energia nella traiettoria; stare attenta e stare in guardia, metterci coraggio, provare a farcela.

Jack London - che fece il pugile dilettante seguendo quella regola buona che dice di provare tutto prima di scriverne - la chiamava La sfida.
Ci si sente bene sul ring, quando hai portato l'avversario dove lo vuoi e lui cerca di colpirti e tu non gli dai spazio, gli assesti il tuo piccolo pugno e lo intontisci, poi l'arbitro lo trascina in mezzo, così che tu possa finirlo, e la platea grida e tu sai che il gioco con lui è stato leale, e lo hai sconfitto perché sei il migliore. 
London vedeva il pugilato come uno spettacolo agonistico di lotta primigenia di selezione della specie, una sequenza serrata di montanti e schivate dove vinceva chi spingeva più ossigeno nei polmoni e riusciva veloce a purificarci il sangue esausto e a rimandarlo indietro vivificato. I pugili dei quali scrive non sono buoni con le parole, si muovono sulla pedana fintando destri e affondando colpi, con tutti i muscoli in mostra, irresistibili per le femmine, plasmate dai tratti ereditari a ricercare per compagno un uomo forte a cui appoggiarsi. Sì, è Darwin, e chi sono io per contraddirlo.

Per il giovane Joe Fleming la boxe è una sirena e un orgoglio, un azzardo sinistro-destro tirato traverso alla mascella. Il suo unico desiderio è che la propria ragazza lo veda combattere almeno una volta, così da mostrarle il prodigio del corpo che lui ha da offrirle, e come gli altri uomini ci scommettano dei soldi.
Al cane messicano Felipe Rivera, un gladiatore senza cotenna, la povertà centuplica la forza, e il suo pugno alzato in segno di vittoria è un'incitazione alla lotta. Pensa alle fabbriche di Rio Blanco mentre combatte, ai lavoratori affamati e pallidi, a Porfirio Diaz che gli ha ammazzato la famiglia, alla lunga frontiera messicana arida e sbiancata dal sole, e alle bande cenciose che aspettano armi per la rivoluzione.
C'è Tom King, il professionista in dirittura d'arrivo, quarant'anni e lineamenti modellati a forza di cazzotti, che si è sempre procurato il cibo lottando come un animale, perché fare a pugni è un mestiere come un altro. Lui, che trionfava sui vecchi campioni, adesso gioca al risparmio, e si rende conto perché un tempo fu così facile vincerli. La sua è la storia più triste del mondo ed è quella che succede a tutti, comunque. I giovani vincono sui vecchi, e mentre vincono invecchiano.
Non aveva mai sentito dire che la vita di un uomo è la vita delle sue arterie ma il cuore, che gli ci ha pompato dentro troppo sangue alla massima pressione, gliele ha sforzate lasciandole ogni volta impercettibilmente più grandi, e se anche adesso sapesse combattere come il migliore dei pugili, non avrebbe l'energia per dimostrarlo. Un uomo - scrive London - ha in sé solo un certo numero di combattimenti, secondo la qualità della sua fibra, e quando li ha combattuti è finito. 

lunedì 13 gennaio 2014

Il suo silenzio è un abuso e anche il tuo

Al liceo avevo un professore unto e grasso che non sapeva niente, a togliergli l'antologia da sotto gli occhi lo avresti visto perdersi. Lo chiamavo il maiale, ci scrivevo su dei racconti, e lo odiavo e lo odio come non odio nessuno.
Ci sono molte cose che non gli perdono - ignobili tutte allo stesso modo - una, per esempio, fu escludere dal programma tutte le donne che scrivevano, come se non ce ne fossero. Tre anni, e i Geni erano tutti maschi.
Se cercavi di immedesimarti in ciò che leggevi potevi essere Beatrice, o Laura, o Lucia, e basta, imparare a stare zitta, chinare il capo, ispirarti a Dio. Non ho mai letto così tanti libri sotto il banco come durante le sue ore, mi serviva a vendicarmi del ghetto in cui mi confinava e a colmare le lacune.
Il Maiale aveva il fiato guasto e, sì, era stupido ma non l'ho mai fatto così ingenuo da non riconoscergli la misoginia come una pratica didattica.
Anche questo è stato un modo di imparare, si cava del buono da tutto, io ci ho tirato fuori una biblioteca che sembra un gineceo furioso.

Là in mezzo, nella sua prigione, Emily Dickinson fa il vuoto.
Quando si reclude in casa a scrivere ha trent'anni, ripiega la propria esistenza in una stanza, senza buon senso, senza lettori, senza un soldo di diritti d'autore. Essere qualcuno non è una gloria e lei non sopporta di vivere come gli altri, a voce alta, così disobbedisce a tutte le regole del mondo perché il mondo non le basta.
Legge, anche se suo padre le ha proibito di farlo, mette la rabbia in versi strani, si dissolve nei pronomi, annulla lo spazio e il tempo, crede molto agli atomi e in Dio per niente. Sono terrorizzata - scrive - non vedo mai estranei e a fatica so cosa dico. L'altro giorno ho perso un mondo, qualcuno l'ha trovato? 
I vicini di casa, che non l'hanno mai vista, la chiamano il Mito, e ne parlano come di uno scricciolo spietato vestito di bianco, un'asceta fantasmatica e radicale con un diamante nella testa.
Il suo intento, dietro le tende, è logorare le parole e svuotarle, sganciarle dal senso.
L'unica volta che si decide a chiedere il parere di qualcuno scrive Sig. T.W. Higginson, le mie poesie le sembrano vive?
Le tiene in un cassetto, sotto chiave come polvere da sparo, e vorrebbe bruciarle tutte prima di morire, darla vinta al silenzio completamente. Quando Allen Tate si trova a studiarla, anni dopo, gli sembra così intensa e pericolosa da meritarsi la forca.
In Italia le sue poesie arrivano con la guerra, un soldato americano le tiene in tasca mentre combatte.  

Chi ha provato a leggerla ci ha visto dentro di tutto: una figlia rifiutata, un'amante abbandonata, una vergine sacrificale, una mistica, un'eccentrica, una lesbica, il nume tutelare di Che Guevara.
Ma più di tutto - lei - era il caos, un contratto col delirio, capace di passare a guado il dolore e scrutare il cielo con sospetto, senza mai sentirsi a casa nella vita o accettarne l'invito.

mercoledì 8 gennaio 2014

Chiedi alla polvere

Mary Randolph Carter è l'archivista di famiglia: colleziona cianfrusaglie e le raccoglie in volumi fotografici. For the love of old è un album rugginoso di ricordi e di interni del suo appartamento di New York, della fattoria nell'Upstate e della casa d'infanzia in Virginia.
Un intero capitolo è dedicato ai libri: come proteggerli, come ordinarli, come vestirli.

Magari non subito ma potreste darci un'occhiata la prossima volta che cambiate casa.
Se leggere non vi piace, impilate i libri vicino al letto e usateli come comodini.







venerdì 3 gennaio 2014

Quel cane di Zola

Laurent cerca il cadavere di Camille all'obitorio e io non riesco a smettere di leggere Zola. Trentuno romanzi in trentasette anni, moli e pile di pagine ciascuno, e il primo dei propositi per il nuovo anno è leggerli tutti, subito.
Il pulp è facile al confronto.

La scuola naturalista avrà fatto fino in fondo il suo dovere nel momento in cui verrà messa fuorilegge in tutti i paesi del mondo, diceva Céline, e invece, oggi, il ritornello della descrizione ipertrofica del vero è diventato una formula buona per tenere chiusi i libri. Zola, che ha messo a leggere le bestie operaie di Montmartre, l'Omero delle fogne, incline al letamaio epico, il pornografo Michelangelo dello sterco che trasforma tutto in fango, uno di quei disgraziati che meglio sarebbe se non fossero mai nati. Quello che ha fatto della merda un'eversione letteraria, che se solo un altro ci si prova, neppure si avvicina. 

L'Assommoir, che è il primo romanzo di Zola che ho letto, primo romanzo sul popolo che non menta e abbia l'odore del popolo, è la parabola di una bestia da soma, una sinfonia sinistra di Parigi, carnivora e edilizia, un romanzo cortese iniziato male, dove l'amore, se succede, è un idillio belato fra le ciminiere dei bassifondi, incorniciato in una bulimia centripeta di marciume, sbornie fatali, anomalie nervose, abiezioni, miserie nere, veleni, lesioni organiche, corna, coazioni, giallo sudicio dei crepuscoli parigini che mettono addosso una gran voglia di morire subito, tanto la vita delle strade sembra brutta. 
Tirate via il naso dalle pagine ogni tanto, prendete fiato. Pensate a Dante e all'igiene dei dogmi; pensate ai lemmi del vocabolario come a inferni di dettagli. Guardate Zola, che li usa tutti, trascina in strada la letteratura e democratizza il mondo intero in un romanzo, raccontando la storia del primo che passa

Adesso ho Thérèse Raquin fra le mani, un'isterica cresciuta nel letto di un malato, sepolta viva in una merceria, tranquilla solo se chiude gli occhi e s'immagina morta in una fossa. Zola ne studia le modifiche organiche pressate dalle circostanze, e a chi lo accusa di fare letteratura putrida risponde che l'accusa d'immoralità, in materia di scienza, non prova proprio nulla, perché lo studio sincero purifica tutto.

Con Zola mi è venuta la foga, lo bevo sotto ipnosi e mi dico Nanà è l'ultimo, poi smetto. Arriva il nuovo anno e io sto nell'Ottocento, col dubbio che sia una perdita di tempo voler sapere tutto di un mondo che non esiste più da così tanto.
Solo che appena inizio a leggere mi arriva uno che mi prende per mano e mi porta dappertutto, e io non riesco a lasciarlo finché non è morto.