sabato 28 giugno 2014

Un minchione

Il 24 aprile 1821, nella campagna di Brusuglio, un uomo dagli incubi nevrotici siede al tavolo del proprio studio e inizia a scrivere.
Per quaranta giorni riempie pagine, poi abbandona. Poi ritorna.
Ha già scritto un po' di versi e alcuni drammi; e adesso vuole provarci con la prosa massiccia del romanzo, anche se Goethe gli dice di non farlo.
Vuole raccontare come ignoranza e malvagità abbiano scoraggiato Milano a vivere, farlo con energia e potenza creatrice; sembrare serio ed essere ironico, come col trucco di ambientare la storia nell'Italia spagnola del '600 per intendere invece l'Italia austriaca.
Ciò che più gli preme comunque, visti i tempi, è fare guerra alla boria della lingua, finirla di esserne servo. Azzerare tutto per rivincita: ritrattare le premesse sociali di ogni storia ufficiale con le storie più modeste degli umili.
Crede infatti - e prima di lui nessuno - che un uso semplice delle parole possa essere la soluzione di molti problemi vitali.

Alla fine gli viene fuori un romanzo che è un disinfettante mentale dall'arroganza dei governanti e dalle ciarlatanerie intellettuali.
Per esempio l'episodio della monaca di Monza ha così poco rispetto per certe istituzioni, che dovrebbe bastare a farne bandire il libro dalle scuole, se ci si accorgesse del veleno che contiene.

In un libro bello e chiaro Gino Tellini fa un ritratto dello scrittore, raccontando come la sua calma e serenità non siano che l'immagine esteriore di un equilibrio conquistato col dominio dei nervi. Non dono del cielo né della sorte benigna. 
Con volontà e disciplina crea un modo di scrivere mai visto, e tutti lo chiamano grande.
No, va bene, non proprio tutti.

Ad esempio, quando la sera del 29 agosto 1827 arriva a Firenze, molti letterati lo indicano come colui che ha preferito il romanzo alla poesia.
Firenze non è Milano: è una città aristocratica e conservatrice, patròna di una lingua di cui ha ibernato la bellezza e di una letteratura gerarchizzata in base al censo. Da una parte i libri dei dotti, dall'altra i lunari del popolo.
Così in molti si rifiutano di recensire il romanzo di un illuminista che ha tentato di rendere più colta la massa.

Accolto ufficialmente al Gabinetto Vieusseux, adorato come un dio da Cioni, Mamiani, Pieri, Niccolini e Giordani, è però ignorato da Leopardi, che giudica il suo romanzo una cosa che fa tanto rumore e vale tanto poco.
Anche a Vieusseux non convincono né la lingua né lo stile delle descrizioni. Tommaseo lo trova noioso, di qui a quarant'anni non si potrà più leggere, sebbene sia, tutto sommato, un libro ammirabile. 
Ma se è fatto per il volgo è troppo alto, se è per gli uomini colti è troppo umile. Un montanaro può certamente essere un uomo stimabile come un re ma non so se meriti d'essere il soggetto d'un romanzo.
Solo Giordani riconosce al libro la capacità di creare nuovo odio contro le iniquità di leggi asservite all'arbitrio del potere.
Come divinamente cogliona i gonfi e vanissimi editti di quegli orgogliosi e inetti governatori che minacciavano inutilmente i bravi e lisciavano i potenti.
Convincere il popolo che tutti i mali vengono dal governo e che il governo non può essere fatto buono che dall'opinione pubblica. La forza dell'opinione non è nei sapienti, che il governo disprezza e perseguita, ma nel popolo che egli teme e seconda.

E invece di quel romanzo si cerca subito di farne una lettura popolare, un breviario di edificazione e rettitudine.
La riforma Gentile sancisce poi il sigillo della scuola sul libro e ingessa l'autore in un simbolo di mansuetudine.
Generazioni di studenti ne studiano la visione idilliaca, cattolica e consolatoria.
Dell'avvelenata accusa contro l'inerzia intellettuale, la distorta amministrazione della giustizia, gli abusi e i soprusi del potere non rimane più niente.
Eppure I Promessi Sposi furono una rivoluzione letteraria che non lasciò niente uguale a prima.
Uno dei più grandi romanzi del mondo, scritto e riscritto da un uomo incline alla tristezza, antiaccademico per vocazione culturale e antiretorico per scelta etica: coglione, senatore del Regno d'Italia, Sua Signoria don Alessandro Manzoni.

domenica 22 giugno 2014

Hiroshima

Sylvia Plath ha nove vite da morire; si fermò alla terza solo perché non fu buona di farsi fuori alla prima. Passò la vita nell'insonnia, replicando i ricordi dell'infanzia, inadeguata alle aspettative adulte di una vita da massaia. Quando il dolore divenne forte i medici le prescrissero scariche elettriche e pillole, cancellandole la paranoia che le serviva per scrivere.
La leggo davvero solo adesso, mi faceva paura una che mette la testa nel forno.

Eppure lo so che dei poeti contano solo i versi, che non sono pazzi, fanno solo finta, e se poi non calcolano il pericolo e si uccidono pazienza. Per una consonante farebbero tutto, pure lo stupro, pure la morte. Magari non sopravvivono e ti deludono però non puoi sapere se avrebbero voluto essere salvati davvero. Giocare alla roulette russa con sei colpi in canna è questione di autocontrollo, non di annientamento.
Per quel che ne so, filmarsi mentre si va in pezzi, scrivere allucinati dalla febbre o come in una seduta psicoanalitica è una tecnica come un'altra. Perciò, anche se le sue Poesie hanno il taglio perpendicolare dell'ascia che schizza linfa e gronda lacrime, io ne studio la metrica.

Per uno che scrive ciò che conta è la costruzione, lo sforzo della manipolazione; e la capacità di usare il vocabolario per mappare il nostro cuore. Per descrivere la follia bisogna essere lucidi mica pazzi, sennò le metafore non centrano il bersaglio. Anche voi avrete pensato di farvi fuori un certo numero di volte ma non avete per questo vinto il Pulitzer.
Le poesie sono polvere - come tutto il resto - ma durano più di cento uomini messi insieme e sono in grado di consolarti quando sei triste. La follia - se esiste - è un medico che vuole adottarti e in cambio della sua protezione farti diventare come gli altri. Un raccontino svelto come Johnny Panic e la Bibbia dei sogni lo spiega benissimo: mi trovo in territorio straniero, il taccuino in mano e soltanto Johnny Panic a scaldarmi nell'era glaciale che mi circonda. Bisogna che acceleri la mia opera, non fosse che per neutralizzare l'azione dei dottori che vogliono condannarci tutti quanti al destino volgare della felicità e della salute.
Se Sylvia Plath accettò l'elettroshock fu solo per descriverne la corona di ferro e l'azzurro dei lampi, così che noi ne stessimo lontani.

Il cuore è un olocausto in cui cammino, che il mondo ucciderà e mangerà. 
Mi sarei uccisa volentieri quella volta, in qualunque modo.
Mi tirarono fuori dal sacco, mi rincollarono pezzo a pezzo. 
Se mi mettessi a scappare dovrei scappare per sempre.  

Quelli che credono possibile scrivere un romanzo autobiografico dicono che La campana di vetro appartenga a quel genere. Come Sylvia, la protagonista è la più brava del college, vince borse di studio, ha vestiti bellissimi e a metà romanzo ha un crollo psichico.
Gli anni '50 le dicono di sposare un buon partito, lavare piatti e fare figli; lei invece vuole studiare, scrivere poesie e sposare un meccanico, al massimo.
Quando sei sposata e hai dei figli è come se ti avessero fatto il lavaggio del cervello e vai in giro come un'ebete, come una schiava di uno stato totalitario privato. Se avessi dovuto badare a un bambino tutto il giorno sarei diventata matta.

Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il mondo è un brutto sogno. Capire dove stia la differenza fra una ragazza lobotomizzata e una che gioca a bridge - fra una ragazza psicoanalizzata, rattoppata, ricostruita, guarita e omologata, e una invece ancora integra - è però difficile. A conti fatti sembra che Sylvia voglia dirci che la vita, anche quando è disciplinata, non vale la pena di essere vissuta. Tutte le vite si muoiono, punto; la poesia è la sola resistenza emotiva in cui si sopravvive.

Dopo essere riuscita a farsi fuori veramente l'ex - marito le trovò i Diari e li pubblicò. Nella prefazione la definì un'alchimista, una primitiva, una maschera drammatica. Insomma, una donna niente testa e tutta istinto. Le distrusse gli appunti di molti mesi, perché non voleva che i figli, e noi, li leggessimo.
Così, per vendetta, mi piace pensare che in quelle pagine Sylvia Plath scrivesse quanto fosse stato stupido l'uomo che aveva sposato e che poi l'aveva tradita proprio mentre lei gli partoriva figli che le sottraevano tempo per scrivere.
Ci aveva visto giusto, in fondo, lei, dall'inizio.