lunedì 17 novembre 2014

Un anno di appunti e di ieri

Due occhi soli non mi bastano e neppure uno magnifico come succede all'oracolo. Vorrei cento, mille, voglio tutti i vostri occhi.

Jack London scriveva di mattina, lo stesso numero di battute ogni giorno, stava al tavolo finché non finiva e pranzava, poi si metteva a leggere.
Wittgenstain scriveva di nascosto, in guerra, ma se è per quello lo faceva anche Cesare.
Alcuni con il proprio vero nome, altri sotto pseudonimo.
Elsa Morante iniziò a scrivere da bambina e già si credeva grande.
Qualcuno copiava, come Petrarca e D'Annunzio.
Montaigne, negli Essais, fa il blogger.
Pensate a come doveva essere Dostoevskij mentre scriveva, pensate a come doveva essere Voltaire. Qualcuno ha scritto le Filippiche, qualcuno le apologie. Kazan scriveva mentre faceva film, Moravia scriveva come un film, in montaggio scarno, riprendeva le immagini dagli angoli. Cervantes scriveva in galera, Niccolò Foscolo in esilio e anche Dante, e prima erano buoni e poi sono diventati cattivi. Fenoglio fu partigiano, perché gli scrittori sono gli unici figli di puttana a cui interessi davvero qualcosa. Così almeno sostiene Vonnegut.
Nelle proprie memorie Louise Bourgeois scrive che l'unica vera arte che ha praticato tutta la vita è stata l'arte di combattere la depressione e la dipendenza emotiva.
Per Calvino gli scrittori dovrebbero essere spietati per giovare davvero agli uomini, per Pavese l'arte vuole un così lungo travaglio e macerazione dello spirito, un tale incessante calvario di tentativi che per lo più falliscono che si potrebbe classificarla fra le attività anti-naturali dell'uomo.

Una volta avevo sedici anni e ho scritto un libro che iniziava così:

Scrivere è dono sacrale infuso a male e si scrive per sé, chi non scrive per sé è un mercante di parole. Perché scrivere non è niente da vendere, scrivere non è parola, scrivere non è scrivere. Scrivere è invisibile, scrivere è sporco, scrivere è al banco di birra in silenzio. Scrivere ha mani vizze, scrivere non sta bene, scrivere è in coma. Scrivere è in un minuto, scrivere è lampo, scrivere non è un bell'affare. Scrivere non sta seduto, scrivere non nasce, scrivere è sotto terra. Scrivere non ha che fare, scrivere incupisce, scrivere è da pazzi. Scrivere è crampi allo stomaco, è crampi alle mani, è blocco mentale alla sorgente. Scrivere non regala niente, scrivere non riempie, scrivere succhia e asciuga e ha la milza dolorante. Scrivere ha la bronchite, scrivere ha un gran mal di testa, scrivere ha una strana vescica. Scrivere non paga l'affitto, scrivere è nudo, scrivere è isterico. Scrivere elemosina, scrivere è una grossa puttana con gli alluci affettati. Scrivere è al ricovero, scrivere è all'ospizio, scrivere è fuori corsia; scrivere è orfano. Scrivere non si sveglia, scrivere russa forte, scrivere non ama. Scrivere ha le serrande, scrivere è cibo scaduto, scrivere se lo mangiano le lucertole. Scrivere è a pezzi, scrivere mente, scrivere è da lasciare stare. Scrivere perde, scrivere non gioca, scrivere è una puntata sbagliata.
I mercanti di parole hanno un gran bell'aspetto e gli zuccheri nel sangue, però.

Penso le stesse cose ancora adesso e mi piace ancora come suonano, anche se oggi non saprei riscriverle.
Quel libro ha tanti anni, questo blog invece ha un anno, oggi.

lunedì 8 settembre 2014

Settembre è una perifrastica attiva

Questo è un pezzo sugli antidoti per gli afoni, fate parte della razza?

Per me funziona così: scelgo un tot di parole per volta, le conto in numero dispari, le unisco. Ne uso tre se sono felice, sette se nascondo una chiave, nove se ho scampato un pericolo.
Non è una cosa semplice rendere nel modo più preciso la musica che ho in testa.
C'è questo schermo bianco e io piegata in avanti che batto, non muovo la cassa toracica, non so se respiro. La tastiera è piccola, fra i polsi. Scrivo poco, cancello. Mi piace la lettera V, la sintesi, la frase minima.
La gente non è stupida.

Scrivere qualcosa dove ci sia silenzio dentro è ciò che voglio. Un posto dove ci si senta come da piccoli, pronti a vivere tutto. Quello sì che è bello. La camera immensa, l'aria bianca, i buoni propositi.

Non so come sia successo avere sempre voluto questo.

Ho regole che non dico. Ascolto le vocali, seguo la grammatica, so qual è la politica. Leggere i libri è la prima delle regole che so sullo scrivere. Lo avete letto Petrarca con quel suo modo di farti piangere a metà verso? Lo avete letto Campana? Non sapevo usare i due punti prima di impararlo da Sartre.

Scrivo sempre come facevo da piccola ma le parole adesso sono repliche.

Poi però succede così, di nuovo: rimando tutto dall'inizio, metto a fuoco i dettagli, scopro i lacci della storia. Scrivo al tempo presente. Quando ho un ritmo inizio a dargli forza, così:

C'è una ragazza sola in una stanza, poca luce, spalle basse. Scivola veloce sopra i tasti. Scrive frottole, sberci, prosa strana fatta a versi. Crede di potere pompare le parole quanto vuole, metterci dentro rabbia-missile e colpire. Sa cosa dire, cerca solo il modo. Va di furia, va di ritmica. Ti manda in orbita la retina se solo vuole, ti manda in paranoia, ti mette microchip di friccichi e ti stona. Ci mette del cicabum da tacco, tre fusa di falangi, due strida fatte a scale, due om, tre sci, un medio sotto al naso che fa no no no no no. Però forse è meglio se ve la tengo lenta e lunga ancora un po'.

Non scrivo più le cose di una volta, ho il dominio della rabbia. Prima a scrivere ci passavo le notti e una volta, all'alba, avevo fatto una poesia bellissima, a penna. Aveva tutto dentro. Le altre poesie le ho buttate, conservo solo quella. Ve la racconterei se sapessi dove l'ho messa.
 
Ho fatto la mia strada. Ho tolto le virgole, uso meglio i punti. Continuo a cercare di conoscere le cose, alla svelta. Mi diverto, come si diverte una che non può tornare indietro. Preferisco le parole a tutto il resto. Mi piacciono i suoni, il modo in cui una A ti allarga la frase e la U assomiglia all'amore. Ho quaderni scritti fitti, elenchi di verbi e di nomi. Uno di questi giorni ci scarabocchierò qualche congiunzione in mezzo e ne tirerò fuori una storia. Non è difficile, ci vuole solo tempo.
Ma faccio presto.

giovedì 24 luglio 2014

Clisteri e cataplasmi

Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno è un libro speciale, vi consiglia romanzi da leggere in base al vostro male.
Ella Berthoud e Susan Elderkin hanno cominciato a prestarsi libri quando studiavano letteratura inglese all'Università di Cambridge e adesso prescrivono libri a pazienti lettori di tutto il mondo attraverso il servizio di biblioterapia della School of Life di Londra.

I malanni sono elencati in ordine alfabetico dalla A di Abbandono alla X di Xenofobia, come in un grande prontuario farmaceutico che celebra il potere curativo della letteratura.
Le parole sono balsamiche, salutari, sedative, analgesiche, antipiretiche, antibiotiche. Sono sintomi e vaccini.
Ingannano il vuoto, che è quasi un miracolo.
Che la vostra sia una patologia conclamata o un malessere saltuario, un dolore fisico o una paturnia, incapacità a relazionarvi con voi stessi o con il mondo, consultate la posologia letteraria prescritta: balsami balzachiani, lacci emostatici tostoiani, pomate di Saramago, purghe di Perec o di Proust.

Libri per notti insonni e libri da leggere in punto di morte
















Il libro è uscito contemporaneamente in vari paesi europei, con edizioni diverse.
Fabio Stassi, che ha curato l'edizione italiana del libro aggiungendovi alcuni dei nostri scrittori più sensibili al tema della malattia, si è trovato a radiografare un paese che soffre da secoli degli stessi mali e delle stesse idiosincrasie: la peste della burocrazia, il narcisismo, la deformità del potere, la falsificazione della Storia, l'incidente e complice ammirazione della furbizia, il culto e l'esibizionismo della virilità, l'ipnotico consenso a un capo, l'alfabeto del servilismo, lo specchio delle dicerie, la fede nella superstizione, l'attitudine a restare adolescenti, la meschineria infantile, lo strabico sdoppiamento della personalità, la paura di invecchiare, la tetra ossessione della lussuria.

Se andassimo dal libraio come si va dal dottore - forse - sarebbe più facile curare il cuore infermo della nazione.  

Libri per mali cronici italiani





mercoledì 2 luglio 2014

Non c'è due senza genesi

Questa è la storia di come muoiono gli Hemingway e non ha inizio con Ernest.
Quando il 2 luglio di cinquantatré anni fa Ernest si spara in bocca suo padre Clarence lo ha già fatto trentatré anni prima.
Anche Leicester, l'altro Hemingway scrittore e fratello, nel 1982 si spara in testa.

Suicida è anche la sorella Marcelline.

Nel trentacinquesimo anniversario della morte di Ernest, il 2 luglio 1996, sua nipote, l'attrice Margaux Hemingway - figlia del primogenito Bumby, campione di pesca e alcolista - si suicida in un appartamento di Santa Monica.
Sei anni prima, intervistata da Playboy, diceva: l'avventura mi eccita ma a volte la strada per percorrerla ha degli intralci. Se si sopravvive si diventa più duri. Il mondo è pieno di gente perbene ma la vita spezza tutti imparzialmente e quelli che sopravvivono sono più forti soprattutto nei punti in cui sono stati feriti.

Lo scorso anno sua sorella Mariel ha girato Running from Crazy, un documentario sul suicidio.

Anche se non è un Hemingway, suicida è pure il loro nonno materno.

Nel 2007 John Hemingway, l'altro nipote di Ernest, ha pubblicato Strange Tribe: A Family Memoir, un libro di ricordi sul rapporto fra il proprio padre Gregory e il nonno Ernest.
Gregory era il secondogenito dello scrittore e morì d'attacco cardiaco in un carcere di Miami, solo, arrestato per crisi maniaco-depressive.
Morì il giorno dell'anniversario della morte di sua mamma.
Anni prima si era fatto operare per diventare donna.
Il giorno in cui Ernest lo scoprì con degli abiti femminili addosso gli disse tu e io veniamo da una tribù molto strana. E basta.

Anche Ernest veniva vestito dalla madre come una bambina, da piccolo. Poi il padre gli aveva messo in mano un fucile.
Nel romanzo I giardini dell'Eden, pubblicato postumo e censurato, Hemingway scrive del labile confine di genere, che infatti non è una cosa semplice.

Il mito del macho che lo circonda non è che la metà della storia.

sabato 28 giugno 2014

Un minchione

Il 24 aprile 1821, nella campagna di Brusuglio, un uomo dagli incubi nevrotici siede al tavolo del proprio studio e inizia a scrivere.
Per quaranta giorni riempie pagine, poi abbandona. Poi ritorna.
Ha già scritto un po' di versi e alcuni drammi; e adesso vuole provarci con la prosa massiccia del romanzo, anche se Goethe gli dice di non farlo.
Vuole raccontare come ignoranza e malvagità abbiano scoraggiato Milano a vivere, farlo con energia e potenza creatrice; sembrare serio ed essere ironico, come col trucco di ambientare la storia nell'Italia spagnola del '600 per intendere invece l'Italia austriaca.
Ciò che più gli preme comunque, visti i tempi, è fare guerra alla boria della lingua, finirla di esserne servo. Azzerare tutto per rivincita: ritrattare le premesse sociali di ogni storia ufficiale con le storie più modeste degli umili.
Crede infatti - e prima di lui nessuno - che un uso semplice delle parole possa essere la soluzione di molti problemi vitali.

Alla fine gli viene fuori un romanzo che è un disinfettante mentale dall'arroganza dei governanti e dalle ciarlatanerie intellettuali.
Per esempio l'episodio della monaca di Monza ha così poco rispetto per certe istituzioni, che dovrebbe bastare a farne bandire il libro dalle scuole, se ci si accorgesse del veleno che contiene.

In un libro bello e chiaro Gino Tellini fa un ritratto dello scrittore, raccontando come la sua calma e serenità non siano che l'immagine esteriore di un equilibrio conquistato col dominio dei nervi. Non dono del cielo né della sorte benigna. 
Con volontà e disciplina crea un modo di scrivere mai visto, e tutti lo chiamano grande.
No, va bene, non proprio tutti.

Ad esempio, quando la sera del 29 agosto 1827 arriva a Firenze, molti letterati lo indicano come colui che ha preferito il romanzo alla poesia.
Firenze non è Milano: è una città aristocratica e conservatrice, patròna di una lingua di cui ha ibernato la bellezza e di una letteratura gerarchizzata in base al censo. Da una parte i libri dei dotti, dall'altra i lunari del popolo.
Così in molti si rifiutano di recensire il romanzo di un illuminista che ha tentato di rendere più colta la massa.

Accolto ufficialmente al Gabinetto Vieusseux, adorato come un dio da Cioni, Mamiani, Pieri, Niccolini e Giordani, è però ignorato da Leopardi, che giudica il suo romanzo una cosa che fa tanto rumore e vale tanto poco.
Anche a Vieusseux non convincono né la lingua né lo stile delle descrizioni. Tommaseo lo trova noioso, di qui a quarant'anni non si potrà più leggere, sebbene sia, tutto sommato, un libro ammirabile. 
Ma se è fatto per il volgo è troppo alto, se è per gli uomini colti è troppo umile. Un montanaro può certamente essere un uomo stimabile come un re ma non so se meriti d'essere il soggetto d'un romanzo.
Solo Giordani riconosce al libro la capacità di creare nuovo odio contro le iniquità di leggi asservite all'arbitrio del potere.
Come divinamente cogliona i gonfi e vanissimi editti di quegli orgogliosi e inetti governatori che minacciavano inutilmente i bravi e lisciavano i potenti.
Convincere il popolo che tutti i mali vengono dal governo e che il governo non può essere fatto buono che dall'opinione pubblica. La forza dell'opinione non è nei sapienti, che il governo disprezza e perseguita, ma nel popolo che egli teme e seconda.

E invece di quel romanzo si cerca subito di farne una lettura popolare, un breviario di edificazione e rettitudine.
La riforma Gentile sancisce poi il sigillo della scuola sul libro e ingessa l'autore in un simbolo di mansuetudine.
Generazioni di studenti ne studiano la visione idilliaca, cattolica e consolatoria.
Dell'avvelenata accusa contro l'inerzia intellettuale, la distorta amministrazione della giustizia, gli abusi e i soprusi del potere non rimane più niente.
Eppure I Promessi Sposi furono una rivoluzione letteraria che non lasciò niente uguale a prima.
Uno dei più grandi romanzi del mondo, scritto e riscritto da un uomo incline alla tristezza, antiaccademico per vocazione culturale e antiretorico per scelta etica: coglione, senatore del Regno d'Italia, Sua Signoria don Alessandro Manzoni.

domenica 22 giugno 2014

Hiroshima

Sylvia Plath ha nove vite da morire; si fermò alla terza solo perché non fu buona di farsi fuori alla prima. Passò la vita nell'insonnia, replicando i ricordi dell'infanzia, inadeguata alle aspettative adulte di una vita da massaia. Quando il dolore divenne forte i medici le prescrissero scariche elettriche e pillole, cancellandole la paranoia che le serviva per scrivere.
La leggo davvero solo adesso, mi faceva paura una che mette la testa nel forno.

Eppure lo so che dei poeti contano solo i versi, che non sono pazzi, fanno solo finta, e se poi non calcolano il pericolo e si uccidono pazienza. Per una consonante farebbero tutto, pure lo stupro, pure la morte. Magari non sopravvivono e ti deludono però non puoi sapere se avrebbero voluto essere salvati davvero. Giocare alla roulette russa con sei colpi in canna è questione di autocontrollo, non di annientamento.
Per quel che ne so, filmarsi mentre si va in pezzi, scrivere allucinati dalla febbre o come in una seduta psicoanalitica è una tecnica come un'altra. Perciò, anche se le sue Poesie hanno il taglio perpendicolare dell'ascia che schizza linfa e gronda lacrime, io ne studio la metrica.

Per uno che scrive ciò che conta è la costruzione, lo sforzo della manipolazione; e la capacità di usare il vocabolario per mappare il nostro cuore. Per descrivere la follia bisogna essere lucidi mica pazzi, sennò le metafore non centrano il bersaglio. Anche voi avrete pensato di farvi fuori un certo numero di volte ma non avete per questo vinto il Pulitzer.
Le poesie sono polvere - come tutto il resto - ma durano più di cento uomini messi insieme e sono in grado di consolarti quando sei triste. La follia - se esiste - è un medico che vuole adottarti e in cambio della sua protezione farti diventare come gli altri. Un raccontino svelto come Johnny Panic e la Bibbia dei sogni lo spiega benissimo: mi trovo in territorio straniero, il taccuino in mano e soltanto Johnny Panic a scaldarmi nell'era glaciale che mi circonda. Bisogna che acceleri la mia opera, non fosse che per neutralizzare l'azione dei dottori che vogliono condannarci tutti quanti al destino volgare della felicità e della salute.
Se Sylvia Plath accettò l'elettroshock fu solo per descriverne la corona di ferro e l'azzurro dei lampi, così che noi ne stessimo lontani.

Il cuore è un olocausto in cui cammino, che il mondo ucciderà e mangerà. 
Mi sarei uccisa volentieri quella volta, in qualunque modo.
Mi tirarono fuori dal sacco, mi rincollarono pezzo a pezzo. 
Se mi mettessi a scappare dovrei scappare per sempre.  

Quelli che credono possibile scrivere un romanzo autobiografico dicono che La campana di vetro appartenga a quel genere. Come Sylvia, la protagonista è la più brava del college, vince borse di studio, ha vestiti bellissimi e a metà romanzo ha un crollo psichico.
Gli anni '50 le dicono di sposare un buon partito, lavare piatti e fare figli; lei invece vuole studiare, scrivere poesie e sposare un meccanico, al massimo.
Quando sei sposata e hai dei figli è come se ti avessero fatto il lavaggio del cervello e vai in giro come un'ebete, come una schiava di uno stato totalitario privato. Se avessi dovuto badare a un bambino tutto il giorno sarei diventata matta.

Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il mondo è un brutto sogno. Capire dove stia la differenza fra una ragazza lobotomizzata e una che gioca a bridge - fra una ragazza psicoanalizzata, rattoppata, ricostruita, guarita e omologata, e una invece ancora integra - è però difficile. A conti fatti sembra che Sylvia voglia dirci che la vita, anche quando è disciplinata, non vale la pena di essere vissuta. Tutte le vite si muoiono, punto; la poesia è la sola resistenza emotiva in cui si sopravvive.

Dopo essere riuscita a farsi fuori veramente l'ex - marito le trovò i Diari e li pubblicò. Nella prefazione la definì un'alchimista, una primitiva, una maschera drammatica. Insomma, una donna niente testa e tutta istinto. Le distrusse gli appunti di molti mesi, perché non voleva che i figli, e noi, li leggessimo.
Così, per vendetta, mi piace pensare che in quelle pagine Sylvia Plath scrivesse quanto fosse stato stupido l'uomo che aveva sposato e che poi l'aveva tradita proprio mentre lei gli partoriva figli che le sottraevano tempo per scrivere.
Ci aveva visto giusto, in fondo, lei, dall'inizio.

lunedì 12 maggio 2014

Lascia i mostri dove sono

Pensa a ciò che ami e scrivilo.
Una cosa che conosci bene e venga giù liscia e piana.
Sii sincera, che le bugie ti fanno schifo.

Ho perso tempo per un motivo stupido.
E comunque non lo so se lui mi ama.
Ora aggiusto da giorni vecchi appunti senza l'entusiasmo dell'inizio. Lavoro d'accétta, dico scrivilo e basta: un inizio, una fine, e un po' di roba in mezzo.
Però non succede niente.

Allora ho un libro che uso come casa, ci torno ogni volta che mi sento strana. S'intitola I beati anni del castigo ed è scritto come un canto di sirena.
Ascolto la musica e mollo la briglia, e capisco che è la calma che mi mortifica. 

Ci sono due ragazze in un collegio svizzero. Una è selvatica e s’immagina morta, l’altra è Frédérique e non parla. La loro amicizia è inerte di abbracci, la loro obbedienza una colonia di germi. Hanno il disgusto e il talento degli idoli, e forse Frédérique è anche pazza. Parla feroce fissando il vuoto, inclina alla forca, non tiene alla vita e non si preserva.
Magari per voi è stupida e pazienza, però per me è bellissima.
C'è qualcosa di assoluto e di imprendibile in certi esseri, sembra una lontananza dal mondo, dai vivi ma sembra anche il segno di chi subisce un potere che non conosciamo.
L’adolescenza è un inventario di presagi, ha già dentro un cimitero.

Fleur Jaeggy scrive cosmogonie inquiete con l’autorità di una sfinge. Ha un vocabolario così minimo e austero da sembrare una formula. Tende i nervi alla sottrazione: l’allegria diventa un fronzolo, il dolore una bussola. Non ha paura dei mostri, paga il biglietto per vederli. Cammina sola nel bosco, batte a macchina e dice che la convalescenza non può avere fine, perché la malattia è cronica.
Se non hai un po’ d’ascesi dissociata, una serie di cadute, magagne, emicranie, ruggine, cure di chemio o in manicomio forse è difficile capire.

Però ogni volta che mi perdo la rileggo e le do retta. Mi dice che è tutto a posto, di dare luce e acqua al mostro. Ascoltarne la storia e metterla in riga. Nel senso di darle parola, non disciplina.

martedì 11 febbraio 2014

La Trezza mala

Acitrezza era ed è ancora un villaggio di pescatori sulla costa orientale della Sicilia, a pochi chilometri a nord di Catania.
Il mare gli fa davanti una frangia di spume e i faraglioni che vengono su dalle onde sono gli ostacoli monolitici che Polifemo mise lì per Ulisse. La spiaggia è nera di lava etnea e i Siciliani la chiamano la terra che trema.
Ci si passerebbe un mese, ma non ci si regge più di quarantott'ore.

Dicono che la casa accanto alla chiesa sia la Casa del Nespolo dei Malavoglia, quella da cui si sente russare il mare in fondo alla strada, come un vagabondo addormentato che si rivolta nel letto.
Da lì Giovanni Verga scriveva la storia della fine di un mondo, di sirene e di figli che si rifiutano di morire come i padri, al lavoro, di domenica.
I Malavoglia è lo studio sincero di come nascono e si sviluppano nelle più umili condizioni le prime irrequietudini per il benessere, e della perturbazione arrecata dalla bramosia dell'ignoto, dall'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe stare meglio.

La Casa del Nespolo fu una delle prime a Trezza ma dopo la morte di Bastianazzo, 'Ntoni soldato e Mena da maritare si dovette lasciarla e fu come espatriare.






Verga diceva che s'impara a scrivere solo ascoltando, e lui ascoltava chi non sapeva scrivere.
Gli veniva fuori una lingua inedita, che sbaglia la grammatica e imbroglia la sintassi, un mosaico di proverbi e pettegolezzi, la nenia amara di una famiglia.



Oggi nella Casa del Nespolo c'è un museo piccolissimo, con due stanze soltanto: c'è la sala della Terra trema, con le fotografie e le locandine del film omonimo di Luchino Visconti, girato ad Acitrezza nel 1947, con gli attori scelti fra gli abitanti del borgo; e c'è la Stanza dei Malavoglia, con le foto scattate al paese da Verga e le lettere scritte al fratello; gli antichi strumenti di lavoro dei pescatori trezzoti della metà dell'Ottocento, paglia sparsa per ogni dove, cocci di stoviglie, nasse sfasciate e in un canto il nespolo, e la vita in pampini sull'uscio.

martedì 21 gennaio 2014

Un covo di uomini nudi

La prima volta che misi i guantoni non ci credeva nessuno.
Dieci anni di danza classica - pulizia, equilibrio, perfezione - e perché mai mi era venuta voglia di farmi spaccare la faccia.
Non sembrava un gioco tanto diverso; sempre un'avventura solitaria, una coreografia leggera sulle punte, fiato e muscoli fasciati, studio dei movimenti, energia nella traiettoria; stare attenta e stare in guardia, metterci coraggio, provare a farcela.

Jack London - che fece il pugile dilettante seguendo quella regola buona che dice di provare tutto prima di scriverne - la chiamava La sfida.
Ci si sente bene sul ring, quando hai portato l'avversario dove lo vuoi e lui cerca di colpirti e tu non gli dai spazio, gli assesti il tuo piccolo pugno e lo intontisci, poi l'arbitro lo trascina in mezzo, così che tu possa finirlo, e la platea grida e tu sai che il gioco con lui è stato leale, e lo hai sconfitto perché sei il migliore. 
London vedeva il pugilato come uno spettacolo agonistico di lotta primigenia di selezione della specie, una sequenza serrata di montanti e schivate dove vinceva chi spingeva più ossigeno nei polmoni e riusciva veloce a purificarci il sangue esausto e a rimandarlo indietro vivificato. I pugili dei quali scrive non sono buoni con le parole, si muovono sulla pedana fintando destri e affondando colpi, con tutti i muscoli in mostra, irresistibili per le femmine, plasmate dai tratti ereditari a ricercare per compagno un uomo forte a cui appoggiarsi. Sì, è Darwin, e chi sono io per contraddirlo.

Per il giovane Joe Fleming la boxe è una sirena e un orgoglio, un azzardo sinistro-destro tirato traverso alla mascella. Il suo unico desiderio è che la propria ragazza lo veda combattere almeno una volta, così da mostrarle il prodigio del corpo che lui ha da offrirle, e come gli altri uomini ci scommettano dei soldi.
Al cane messicano Felipe Rivera, un gladiatore senza cotenna, la povertà centuplica la forza, e il suo pugno alzato in segno di vittoria è un'incitazione alla lotta. Pensa alle fabbriche di Rio Blanco mentre combatte, ai lavoratori affamati e pallidi, a Porfirio Diaz che gli ha ammazzato la famiglia, alla lunga frontiera messicana arida e sbiancata dal sole, e alle bande cenciose che aspettano armi per la rivoluzione.
C'è Tom King, il professionista in dirittura d'arrivo, quarant'anni e lineamenti modellati a forza di cazzotti, che si è sempre procurato il cibo lottando come un animale, perché fare a pugni è un mestiere come un altro. Lui, che trionfava sui vecchi campioni, adesso gioca al risparmio, e si rende conto perché un tempo fu così facile vincerli. La sua è la storia più triste del mondo ed è quella che succede a tutti, comunque. I giovani vincono sui vecchi, e mentre vincono invecchiano.
Non aveva mai sentito dire che la vita di un uomo è la vita delle sue arterie ma il cuore, che gli ci ha pompato dentro troppo sangue alla massima pressione, gliele ha sforzate lasciandole ogni volta impercettibilmente più grandi, e se anche adesso sapesse combattere come il migliore dei pugili, non avrebbe l'energia per dimostrarlo. Un uomo - scrive London - ha in sé solo un certo numero di combattimenti, secondo la qualità della sua fibra, e quando li ha combattuti è finito. 

lunedì 13 gennaio 2014

Il suo silenzio è un abuso e anche il tuo

Al liceo avevo un professore unto e grasso che non sapeva niente, a togliergli l'antologia da sotto gli occhi lo avresti visto perdersi. Lo chiamavo il maiale, ci scrivevo su dei racconti, e lo odiavo e lo odio come non odio nessuno.
Ci sono molte cose che non gli perdono - ignobili tutte allo stesso modo - una, per esempio, fu escludere dal programma tutte le donne che scrivevano, come se non ce ne fossero. Tre anni, e i Geni erano tutti maschi.
Se cercavi di immedesimarti in ciò che leggevi potevi essere Beatrice, o Laura, o Lucia, e basta, imparare a stare zitta, chinare il capo, ispirarti a Dio. Non ho mai letto così tanti libri sotto il banco come durante le sue ore, mi serviva a vendicarmi del ghetto in cui mi confinava e a colmare le lacune.
Il Maiale aveva il fiato guasto e, sì, era stupido ma non l'ho mai fatto così ingenuo da non riconoscergli la misoginia come una pratica didattica.
Anche questo è stato un modo di imparare, si cava del buono da tutto, io ci ho tirato fuori una biblioteca che sembra un gineceo furioso.

Là in mezzo, nella sua prigione, Emily Dickinson fa il vuoto.
Quando si reclude in casa a scrivere ha trent'anni, ripiega la propria esistenza in una stanza, senza buon senso, senza lettori, senza un soldo di diritti d'autore. Essere qualcuno non è una gloria e lei non sopporta di vivere come gli altri, a voce alta, così disobbedisce a tutte le regole del mondo perché il mondo non le basta.
Legge, anche se suo padre le ha proibito di farlo, mette la rabbia in versi strani, si dissolve nei pronomi, annulla lo spazio e il tempo, crede molto agli atomi e in Dio per niente. Sono terrorizzata - scrive - non vedo mai estranei e a fatica so cosa dico. L'altro giorno ho perso un mondo, qualcuno l'ha trovato? 
I vicini di casa, che non l'hanno mai vista, la chiamano il Mito, e ne parlano come di uno scricciolo spietato vestito di bianco, un'asceta fantasmatica e radicale con un diamante nella testa.
Il suo intento, dietro le tende, è logorare le parole e svuotarle, sganciarle dal senso.
L'unica volta che si decide a chiedere il parere di qualcuno scrive Sig. T.W. Higginson, le mie poesie le sembrano vive?
Le tiene in un cassetto, sotto chiave come polvere da sparo, e vorrebbe bruciarle tutte prima di morire, darla vinta al silenzio completamente. Quando Allen Tate si trova a studiarla, anni dopo, gli sembra così intensa e pericolosa da meritarsi la forca.
In Italia le sue poesie arrivano con la guerra, un soldato americano le tiene in tasca mentre combatte.  

Chi ha provato a leggerla ci ha visto dentro di tutto: una figlia rifiutata, un'amante abbandonata, una vergine sacrificale, una mistica, un'eccentrica, una lesbica, il nume tutelare di Che Guevara.
Ma più di tutto - lei - era il caos, un contratto col delirio, capace di passare a guado il dolore e scrutare il cielo con sospetto, senza mai sentirsi a casa nella vita o accettarne l'invito.

mercoledì 8 gennaio 2014

Chiedi alla polvere

Mary Randolph Carter è l'archivista di famiglia: colleziona cianfrusaglie e le raccoglie in volumi fotografici. For the love of old è un album rugginoso di ricordi e di interni del suo appartamento di New York, della fattoria nell'Upstate e della casa d'infanzia in Virginia.
Un intero capitolo è dedicato ai libri: come proteggerli, come ordinarli, come vestirli.

Magari non subito ma potreste darci un'occhiata la prossima volta che cambiate casa.
Se leggere non vi piace, impilate i libri vicino al letto e usateli come comodini.







venerdì 3 gennaio 2014

Quel cane di Zola

Laurent cerca il cadavere di Camille all'obitorio e io non riesco a smettere di leggere Zola. Trentuno romanzi in trentasette anni, moli e pile di pagine ciascuno, e il primo dei propositi per il nuovo anno è leggerli tutti, subito.
Il pulp è facile al confronto.

La scuola naturalista avrà fatto fino in fondo il suo dovere nel momento in cui verrà messa fuorilegge in tutti i paesi del mondo, diceva Céline, e invece, oggi, il ritornello della descrizione ipertrofica del vero è diventato una formula buona per tenere chiusi i libri. Zola, che ha messo a leggere le bestie operaie di Montmartre, l'Omero delle fogne, incline al letamaio epico, il pornografo Michelangelo dello sterco che trasforma tutto in fango, uno di quei disgraziati che meglio sarebbe se non fossero mai nati. Quello che ha fatto della merda un'eversione letteraria, che se solo un altro ci si prova, neppure si avvicina. 

L'Assommoir, che è il primo romanzo di Zola che ho letto, primo romanzo sul popolo che non menta e abbia l'odore del popolo, è la parabola di una bestia da soma, una sinfonia sinistra di Parigi, carnivora e edilizia, un romanzo cortese iniziato male, dove l'amore, se succede, è un idillio belato fra le ciminiere dei bassifondi, incorniciato in una bulimia centripeta di marciume, sbornie fatali, anomalie nervose, abiezioni, miserie nere, veleni, lesioni organiche, corna, coazioni, giallo sudicio dei crepuscoli parigini che mettono addosso una gran voglia di morire subito, tanto la vita delle strade sembra brutta. 
Tirate via il naso dalle pagine ogni tanto, prendete fiato. Pensate a Dante e all'igiene dei dogmi; pensate ai lemmi del vocabolario come a inferni di dettagli. Guardate Zola, che li usa tutti, trascina in strada la letteratura e democratizza il mondo intero in un romanzo, raccontando la storia del primo che passa

Adesso ho Thérèse Raquin fra le mani, un'isterica cresciuta nel letto di un malato, sepolta viva in una merceria, tranquilla solo se chiude gli occhi e s'immagina morta in una fossa. Zola ne studia le modifiche organiche pressate dalle circostanze, e a chi lo accusa di fare letteratura putrida risponde che l'accusa d'immoralità, in materia di scienza, non prova proprio nulla, perché lo studio sincero purifica tutto.

Con Zola mi è venuta la foga, lo bevo sotto ipnosi e mi dico Nanà è l'ultimo, poi smetto. Arriva il nuovo anno e io sto nell'Ottocento, col dubbio che sia una perdita di tempo voler sapere tutto di un mondo che non esiste più da così tanto.
Solo che appena inizio a leggere mi arriva uno che mi prende per mano e mi porta dappertutto, e io non riesco a lasciarlo finché non è morto.